Ma con ordine.
Matrimonio di C. e A.
Lui di anni complessivamente 26, nasce pochi giorni prima di me nel 1978.
Il ventiseienne pronto al matrimonio si differenzia dal ventiseienne universale per aver comprato alla standa i piatti in ceramica da pizza “sei forte papà“
Lunedì mattina ore 10.30, amici e parenti con l’efficacia di dieci ore di sonno determinante. Arrivo ancheggiando su tacchi a spillo di metallo che rovineranno l’80% della mia salute con alle spalle 1, il flusso del valium che mi ha permesso di dormire dalle sette alle nove, 2, lo strappo delle autoreggenti cestinate in uno spartitraffico, smagliate al primo km, 3, insulti diretti ai benzinai della zona. Che vogliono a tutti i costi farmi la blu diesel senza voler capire perché esattamente non accetto l’estetica della pompa gialla.
La chiesa si riempie di profani. Nelle navate laterali, un esorcista al metro gira con la doppietta per trovare i non battezzati. Al mio fianco G. appoggia le marlboro rosse, l’accendino e una pinta di becks sul supporto della panca anteriore. Il prete è Romano Prodi fuori servizio. E fa capire a tutti che è vicino al vicariato perché ad ogni occasione sensibile, lui canta. Legge cantando. Parla cantando, tossisce in sol7 accompagnato dalla chitarra.
La chitarra. Accordata grazie al clacson di un iveco eurocargo poche ore prima, suona “Sembra talco ma non è serve a darti l’allegria” durante l’alleluia.
I testimoni garanti di un passato cattolico personale inesistente non sanno se devono ballare. Si guardano indietro. No.
Prodi fa salire i promessi sull’altare.
Lui: io c. prendo te, prendo te, prendo te per ehm prendo. Te. Sol7.
Niente vi dichiaro marito e moglie, niente bacio, niente prete vestito da elvis.
Delusione.
Allo spezzare del pane. Si inginocchia solo una persona, di anni 80 circa; tutti si guardano per capire la mossa regolare da fare. Io legittimata da tre esami di teologia alla cattolica di milano, mi siedo.
Prodi con calice pieno di ostie benedette si avvicina ai testimoni. Lo guardano con espressione: “noi siamo a posto così.” Consegna l’ostia all’ottantenne, se ne mette in bocca tre e si ritira razzista e incazzato.
Ristorante. Villa Inquisizione, 800 mq di erba spuntata a mano con pinzette da sopracciglia. Un chiostro coperto dove migliaia di pesci cagano caviale direttamente sui crostini. Aragoste con il tatuaggio del rotary club, e licia colò che ci rassicura che volevano fermamente suicidarsi, mostrandoci i risultati delle loro macchie di Roscharch.
G. in calo di zuccheri ingerisce tutta la verdura decorativa.
La violinista con le catene ai piedi suona schubert rivisitato in chiave coniugale.
I camerieri servono con la fascia nera e divisa, ci guardano male e tentano di annacquarci lo spumante. Poi M. rompe un bicchiere di cristallo, della collezione “il risorgimento”, dal quale aveva sorseggiato Camillo Benso di Cavour. La madre della sposa viene subito avvisata che gli amici dello sposo sono drogati.
Segue la rissa e l’armistizio di villafranca.
Seguono sette culi esposti sul muretto sopraelevato della villa.
Tagliando tra le 14 e le 24 per inammissibilità descrittiva, ricordiamo il momento migliore del matrimonio, tra mezzanotte e la una. Lei in vestito da sposa che vomita gin tonic in un lavandino di un cesso, lui che le sorregge i capelli e il velo. Se questo non è amore.